domenica 31 ottobre 2010

...e se invece volessi fare la scrittrice?

"Era notte.

E Lidianhor avrebbe dovuto dormire già da tempo.

Ma non riusciva.

Sotto alle coperte il caldo era insopportabile. I suoi piedi erano freddi ed il corpo sudava come se fosse scosso da una febbre alta.

Fuori soffiava un vento gelido, carico di neve e non si sentiva nessun rumore.

Dalla finestra in legno con gli infissi cedevoli, il fischio del vento entrava ancora più forte e faceva sbattere i vetri tenuti fermi da uno stucco ormai secco e pieno di crepe.

Il buio avvolgeva ogni vicolo, ogni casa, ogni locanda del villaggio di Munmud.

Lei aveva paura del buio e tremava sotto le coperte.

Lidianhor, occhi chiari e carnagione olivastra che alla luce delle candele assume un colorito verde, quasi malato. Il suo volto è tempestato di lentiggini sul quale guizzano veloci e vigili i suoi occhi, sempre attenti, sempre sgranati. I capelli scendono lisci e fluenti sul viso triangolare incorniciando uno sguardo forte, fiero, senza paura, ma pur sempre velato da un manto di tristezza, di solitudine.

Si rigirava nel letto già da ore, senza riuscire a dormire. La luce della candela era ormai quasi spenta. Ma lei non poteva dormire nel buio. Era l’unica cosa che temeva più al mondo. Ed era anche la sola cosa che ricordasse del suo passato. Il buio. Un immenso e vuoto buio in cui doveva avere vissuto tutti primi anni della sua vita. Poi il nulla.

I suoi primi ricordi risalivano agli anni di addestramento nella chiesa di Talet, Dio della Magia. Alla sua compagna di giochi Amaya e alla spensieratezza di quel periodo.

Ricordava quando correva per i prati dietro il tempio, fingendo grandi guerre e scontri tra dei. Lei e gli altri ragazzi della Chiesa impugnavano un pezzo di legno e lo tenevano davanti a loro come scudo, un piccolo bastone nodoso di abete fingeva da spada e le piccole pigne si trasformavano ai loro occhi in magnifici incantesimi che solo i grandi maghi del passato avrebbero saputo lanciare. Ricordava con un sorriso che le si dipingeva sul volto, le sere, quando, dopo avere pregato Talet, le sacerdotesse se ne andavano nei propri alloggi e lei e Amaya parlavano per notti intere, parlavano dei loro sogni, delle loro idee, del loro futuro marito, si dicevano che non si sarebbero mai lasciate e che sarebbero diventate sacerdotesse insieme e che avrebbero vissuto l’una accanto all’altra perché i loro figli potessero vivere insieme.

Ma poi il destino era stato molto diverso da quel che pensava Lidianhor. Lei non era come le altre adepte della Chiesa, aveva dentro qualcosa che le ribolliva, un desiderio di riuscita e di scoperta. E poi la magia non era il suo primo interesse né tantomeno la sua prima abilità: Lidianhor aveva difficoltà a lanciare anche gli incantesimi più semplici e la sua memoria faceva cilecca dopo poche ore di studio. Era invece maestra nell’uso delle armi, della spada e della lotta. E forse fu proprio questo a spingerla poi tanto lontano.

Lidianhor sorrideva ogni volta che ripensava ai giorni in cui era stata felice, ma prima di quel tempo, nessun ricordo, nessun segno di un suo passato precedente.

Nessuno in grado di dirle qualcosa riguardo chi fosse prima di entrare nella Chiesa di Talet.


Aprì quindi gli occhi e si girò verso la finestra.

Vide solo la luce della sua candela che si rifletteva nei vetri umidi e sporchi. Erano giorni ormai che era in viaggio. Vagava di qua e di là come una raminga, alla ricerca di qualcosa, di qualcuno. Forse alla ricerca solo di se stessa.

I pensieri le soffocavano la mente, non sapeva perché, ma il cuore le batteva all’impazzata nel petto. Cercava in ogni istante della sua vita la ragione di quella morsa che le stringeva lo stomaco e il respiro, ma non trovava alcuna risposta.

-Inutile restare qui a perder tempo – pensò ancora avvolta dalle calde coperte arruffate. Quindi si sedette sulla sponda del letto.

Un brivido le percorse la schiena non appena i suoi esili e freddi piedi ebbero toccato il pavimento. Era di legno, ma era gelato e ruvido, quasi se ne graffiò le piante. Prese dal comodino dei calzari di stoffa. Erano delle specie di tubolari di lana grezzi e molto caldi. Il regalo di sua madre. O almeno di colei che le aveva fatto da madre nella Scuola di Talet.

Se li infilò ed immediatamente ne trovò calore, non solo un calore fisico, ma anche un calore umano che da molti mesi non sentiva. Il calore di un abbraccio.

Poi prese la coperta e se la avvolse intorno alle spalle.

Si alzò e si avvicinò alla finestra di legno. Da li osservava il villaggio.

Munmud era da sempre un villaggio pacifico. Di passaggio per gli avventurieri che speravano di potersi rifocillare e magari trovare qualche gentile compagnia per lenire la solitudine di viaggi lunghissimi spesso senza ritorno e di scambio per i commercianti: era famoso il suo mercato e l’assortimento delle merci che provenivano da altre terre. Vi si trovavano le armi di miglior pregio, i cibi di più strana origine, pozioni e pergamene di qualunque genere e fattura. Era un agglomerato di case che si sviluppava in modo concentrico attorno al porto e via che ve ne si allontanava, le case diventavano sempre più grandi e comode. Il villaggio di Munmud era il principale porto del regno di Sonne, territorio noto per la sua legalità mantenuta salda grazie ai Cavalieri degli Scudi che avevano in Munmud la loro sede principale.

Ma questo villaggio più che famoso era rinomato nel tempo per il “giorno dell’opportunità”.

Questa ricorrenza era nota ai più, sebbene non vi fosse nessuna notizia ufficiale e formale della sua esistenza. Narrano, infatti, le cronache tramandate oralmente dai bardi, che ogni cinque anni, la quinta alba del terzo periodo, chiunque cercasse un apprendista, un allievo od un praticante nella propria arte, si potesse recare sull’altura del Cuore di quercia in attesa che qualche giovane desideroso ivi si recasse per iniziare un nuovo cammino.

I primi tempi pochi erano gli interessati, e spesso coloro che andavano alla ricerca di un maestro o di un allievo, se ne andavano insoddisfatti e a mani vuote, ma dopo qualche tempo, il giorno dell’opportunità divenne un vero e proprio momento di ritrovo, il cuore pulsante di tutte le arti magiche, belliche, ancestrali o fatate che fossero.

Vi accorrevano giovani maghi alla ricerca di un precettore da poter seguire, ladri adolescenti alla ricerca di qualche gilda di cui poter far parte, chierici con il disperato bisogno di trovare un successore da allevare per la loro chiesa.

Il tutto durava sette giorni, durante i quali i candidati venivano sottoposti alle peggiori prove perché si vagliasse il loro coraggio, la loro tenacia e la loro tempra. Erano prove tra le più diverse tra loro, alcune spietate. Si narra che la gilda degli assassini del Sangue Purpureo, abbia sottoposto in passato i suoi apprendisti a prove di rara crudeltà non ultimo uccidere la propria sorella o la propria madre tutto solo per dar prova del loro sangue freddo e della loro determinazione...."

sabato 23 ottobre 2010

ci vuol poco a fare autunno...

Un piatto di castagne in mezzo al tavolo, una luce calda e avvolgente che illumina la cucina, il tepore che si diffonde dai caloriferi, il maglione a collo alto rosso che sa dell'inverno scorso, una tazza di thè bollente tra le mani e il profumo di pastafrolla dei biscotti...e una bambina profumata di borotalco avvolta nel suo pigiama di ciniglia giallo...